Google+ chiude. E lo fa velocemente, anticipando i tempi previsti (questa accelerazione sembrerebbe addirittura dovuta a violazioni della sicurezza). Insomma: Google esce definitivamente dal progetto social che aveva lanciato nel 2011, e lo fa in fretta e furia. Una retromarcia che Google non si preoccupa nemmeno di nascondere troppo. Chiude tutto, punto e stop. Niente più social media marketing su questa piattaforma.
Perché Google+ è un progetto mai decollato? In questi giorni, tanti si stanno scatenando nel dare una risposta alla domanda. C’è chi parla anche di politiche sbagliate, invidie, colpi bassi. Di sicuro, ci sono molte ragioni dietro a questo stop di Big G. E forse una lettura può venire anche dal marketing. Vediamo qual è.
Prima di continuare, voglio però fare una premessa. Mi rendo conto che non sono nessuno per giudicare Google. Larry Page e Sergey Brin sono due geni e le persone “comuni” come me dovrebbero solo fare questo: stare zitti. Bisognerebbe insomma avere più umiltà, sentendosi un topolino che vuole immischiarsi nei fatti che riguardano i leoni.
Ma c’è dell’altro. Analizzare quanto successo a Google+ può essere perfino una perdita di tempo. In effetti, l’Italia è il regno delle PMI: che senso ha studiare quanto successo a una delle più grandi multinazionali mondiali? In altre parole: quello che sto per scrivere ha soltanto il valore di una riflessione a voce alta. Magari lo troverai interessante o forse no. Ad ogni modo, non ho la pretesa d’insegnare alcunché ad alcuno.
Ciò premesso, vediamo perché la chiusura di Google+ potrebbe avere a che fare con il marketing. O meglio: perché se ne può dare una lettura anche in chiave marketing.
Ogni mercato, perfino la più piccola nicchia di qualunque settore, tende ad avere un leader. Vale a dire che un’azienda, tra tutte quelle che operano lì, ha la quota di mercato più alta. Nell’ambito dei social network, il leader è senza dubbio Facebook. Vuoi perché è nato sette anni prima di Google+. E sette anni sono un vantaggio enorme sul web, dove tutto si muove più velocemente rispetto al mondo fisico.
Tutti gli altri social più diffusi si differenziano da Facebook. Facebook è la piattaforma che ci permette di rimanere in contatto con le persone per noi importanti. YouTube è invece il social dei video. Instagram è il social delle immagini. Twitter è il social di chi cerca informazioni. LinkedIn è il social dei professionisti.
Ora, ti chiedo: che cos’è Google+? Io faccio fatica a rispondere a questa domanda. Perché Google+ è un social che non ho mai percepito come una piattaforma specifica per qualcuno.
Molti dei miei conoscenti che lo usavano sono digital marketer come me. E penso che lo usassero solo per averne un qualche (presunto) vantaggio in termini di SEO. O solo per avere un ulteriore spazio online in cui essere presenti. Quello che voglio dire è che non ho mai avvertito granché entusiasmo negli utenti di Google+. Perché il social aveva un’immagine un po’ deboluccia, nonostante qualche indubbia innovazione (che forse poteva essere comunicata meglio) rispetto agli altri social.
Che cosa ci insegna questa storia? La morale è che puoi avere tantissimi soldi (e Google ne ha), ma se offri al mercato un prodotto o un servizio lontano dalla percezione che la gente ha di te, rischi di fare fiasco. Mi spiego meglio. Google per la gente significa motore di ricerca, non social. È pertanto dura far digerire alla gente che sei diventato anche un social.
Quindi, Google non avrebbe mai dovuto lanciare un proprio social network? Certo che avrebbe potuto, e lo può fare ancor oggi. Però quel social network avrebbe dovuto avere un’identità precisa, differente da quella dei social concorrenti. Un’identità che Google+ pare non avesse.
Google+ non è riuscito a salvarsi dalla chiusura nonostante Google avesse deciso di comparire nel nome del social, come a rafforzarne l’autorevolezza. Una scelta che non sempre funziona, perché chi è leader in una categoria (motori di ricerca) non è detto che possa estendere la propria leadership in un’altra categoria (social network). Soprattutto se lì c’è già un leader chiaro (Facebook).
Se vuoi, è la stessa cosa che succede per la cola della Red Bull. Red Bull, che è leader nel settore degli energy drink, che ha peraltro inventato, ha poche speranze contro chi è leader di settore nelle cola, cioè Coca-Cola. Senza considerare che il secondo, Pepsi, è un’altra potenza impressionante.
Sarebbe stato dunque meglio chiamare Google+ in un altro modo, sganciandolo da ogni richiamo a Google, che è percepito come il leader dei motori di ricerca. Un po’ come ha fatto Toyota con le sue automobili di fascia alta. Non le ha chiamate Toyota High o qualcosa del genere. Le ha chiamate Lexus. Ha cioè creato un nuovo brand per andare a competere in un’altra categoria, quella delle auto di lusso.
E tu, come la vedi? Che cosa ti ha insegnato l’esperienza di Google+? Vuoi dire la tua lasciando un commento qui sotto?
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Questo post che spiega perché la chiusura di Google+ può essere anche letta in chiave di marketing è stato scritto da Alessandro Scuratti, content marketing specialist e business blogger.
Da oltre 20 anni mi occupo di comunicazione per le aziende, come business writer e come content marketer. Dal 2011, gestisco questo mio blog, che raccoglie migliaia di visite ogni giorno. Sono anche l’autore di Scrivere per il web 2.0.
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